indice

martedì 15 maggio 2012

Pisa al Salone del Libro di Torino. Se il bue si riconosce dalle corna l’uomo lo si riconosce dalla parola

“Parole, parole, parole…” Non è esattamente l’inno nazionale, ma sul piano del costume poco ci manca. Si dice anche “parole al vento”, si intende parole non supportate da fatti. Ma se la conoscenza della nostra tradizione, specialmente quella politica, proverebbe facilmente l’esistenza di parole senza fatti, che dire del contrario? Possono esistere fatti senza parole? “Immediatamente dopo il loro accadere i cosiddetti fatti esisteranno solo se qualcuno li sostanzierà con le parole. Tutto il lungo passato della nostra umanità è costituito da fatti, ma nessuno esisterebbe per noi se qualcuno non li avesse racchiusi in scrigni di parole in grado di conservarli“. Nel suo nuovo libro Detto fatto, sugli usi e sugli abusi delle parole appena pubblicato da Edizioni Ets e presentato in questi giorni al Salone internazionale del libro di Torino, Piero Paolicchi, già docente di psicologia sociale all’Università di Pisa, afferma che se il bue si riconosce dalle corna l’uomo lo si riconosce dalla parola e indica come per il senso comune e le scienze umane “le parole possono essere pietre con cui colpire, bisturi con cui curare, vessilli dietro cui far muovere intere masse”. Capirle vuol dire conoscere la loro storia, ma anche interrogarsi sul "cosa sta facendo" e non solo sul "cosa sta dicendo", significa capire chi le pronuncia, il "pulpito da cui viene la predica". Per capire meglio i fatti è necessario interrogare “le parole con cui sono narrati”.
Un viaggio nel mondo sempre meno frequentato delle parole dove l’autore alterna i registri del saggio scientifico erudito con quelli dell’ironia e del parlare popolare. Storie singolari ma interpretabili solo sullo sfondo delle vicende a cui va incontro ogni linguaggio diffondendosi e modificandosi, arricchendosi o impoverendosi. Le patologie determinate nella nostra lingua dai moderni modi di comunicare vedono in televisioni e cellulari i veicoli primari di contagio. Tuttavia come i giochi di parole sono spesso anche giochi di potere così l’imbarbarimento e l’impoverimento linguistico si accompagnano sempre a quello culturale e morale.
Paolicchi ci ricorda che “il patrimonio di cultura a cui tutte le parole contribuiscono, non possono essere lasciate sulla bocca e nella testa, dei molti o pochi che le usano, le abusano o le accantonano in un dato momento sulla base di mode casuali e momentanee, ma deve essere protetto in quel mondo più indipendente dagli scambi comunicativi che è il mondo della scrittura”. Così se si parla e si ascolta per esigenze del momento, si scrive sempre per il dopo. Messaggi che potranno essere recepiti “anche dopo giorni, anni o secoli”.
Enrico Stampacchia

Nessun commento:

Posta un commento