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lunedì 4 giugno 2012

Officine della follia Il libro sul manicomio di Volterra

Addestrare al lavoro ripetitivo, ammansire, ma spesso anche assopire ogni istinto vitale rendendo incapaci di opporre resistenza ai voleri altrui, “di esprimere i propri malesseri attraverso parole, suoni o urla”. L’obiettivo della “progettazione di un uomo nuovo” propria dei fondatori del  moderno paradigma psichiatrico e dell’istituzione manicomiale “veniva in parte raggiunto”. Un uomo nuovo, un uomo “istituzionalizzato” che era “però spesso ridotto ad un simulacro di se stesso”. Docile, ma di una “docilità che non è neppure in grado di esprimere valori positivi”, di una “docilità che equivale al non essere”.
Il libro Le officine della follia – Il frenocomio di Volterra (1888-1978) di Vinzia Fiorino pubblicato da Edizioni Ets sarà presentato lunedì 4 giugno alle ore 17.30 presso la sala consiliare dell’Amministrazione provinciale in piazza Vittorio Emanuele da Silvia Pagnin, assessore alla Cultura della Provincia di Pisa, Massimiliano Casalini, consigliere provinciale, Roberto Cappuccio, psichiatra, psicoterapeuta e con la partecipazione della stessa autrice.
Il volume non si limita a denunciare le finalità di una logica manicomiale più interessata alla custodia, e a mantenere alto il numero dei degenti, che alla cura e al reinserimento. Non è la fotografia di una situazione statica. Ripercorre i novant’anni di storia del manicomio di Volterra e ricostruisce in modo dettagliato le evoluzioni (e anche talora le involuzioni) e le caratteristiche originali che l’hanno contraddistinto, dalla sua nascita come cronicario, alle esperienze d’avanguardia negli ultimi anni precedenti alla dismissione. Frutto di una ricerca accurata, proposta dall’autrice alla Provincia di Pisa e pubblicato con il contributo della stessa, il libro descrive molto bene l’esperienza della struttura manicomiale di Volterra in rapporto anche ai modelli culturali che l’hanno legittimata, ma anche le storie, i singoli casi umani di chi vi ha abitato.
L’ergoterapia, la terapia del lavoro  ha contraddistinto la storia del manicomio di Volterra.
Introdotta da Luigi Scabia, direttore del frenocomio per trentaquattro anni a partire dal 1900, la terapia del lavoro prevedeva che all’interno del maniconio-villaggio open door, “una sorta di piccola città indipendente fondata sul contributo lavorativo di tutti” dove poter girare liberamente “nei viali così come nelle strade della cittadina volterrana”, si coltivasse, si fabbricasse, si producesse. Il lavoro è parte del progetto terapeutico e le esperienze lavorative si estenderanno anche al di fuori della struttura (basti pensare agli scavi che negli anni Cinquanta “porteranno alla luce l’antico teatro romano di Volterra”).  
Il termine “officine”, significativamente inserito nel titolo dall’autrice, ha, però, anche un altro significato metaforico. L’obiettivo per incrementare la popolazione, che nel 1940 raggiungerà il suo massimo con 4547 presenze, era quello “di accaparrarsi fette sempre più importanti di un incredibile mercato, quello dei soggetti in esubero dei vari manicomi italiani”.
Una politica fatta di convenzioni con il maggior numero di Province italiane determinerà l’afflusso di pazienti da aree lontane. A prevalere saranno le ragioni istituzionali prima ancora di quelle determinate dal dibattito scientifico dell’epoca. Se in precedenza l’esigenza dei legami affettivi e delle relazioni tra le famiglie e le istituzioni manicomiali avevano primeggiato, “per i soggetti che giunsero a Volterra in seguito a convenzioni” le mediazioni con le famiglie sarebbero state molto esigue o del tutto inesistenti.
Tuttavia dopo la lunga direzione Scabia, negli anni Trenta le esperienze terapeutiche successive si allineeranno con quelle in uso sul resto del territorio nazionale durante il periodo fascista: malarioterapia, insulinoterapia, elettroshock, lobotomia. Nel secondo dopoguerra l’ergoterapia continuerà ad essere praticata, “ma subirà un notevole declassamento: da pratica terapeutica principale” sarà indicata “solo nella fase precedente alle dimissioni, quindi come una sorta di terapia-cuscinetto che prelude il reinserimento del paziente nella vita civile”. Oltre a quelle scioccanti, già in auge, le nuove vere terapie saranno quelle farmacologiche.
Le evoluzioni più significative si affermeranno a partire dagli anni Sessanta quando inizierà ad emergere il tema del reinserimento dell’ex degente, ma sarà solo nel decennio successivo che muterà completamente la concezione stessa del malato: “i quadri diagnostici cominciavano a restare sullo sfondo , mentre le indagini psicologiche, le relazioni familiari, le condizioni materiali acquistavano un inedito rilievo”. Considerare i ricoverati non più oggetti di controllo, ma soggetti di relazioni sociali e di bisogni “ha significato sovvertire lo spazio manicomiale”.
La stessa ergoterapia iniziò ad essere respinta perché non era concepita come strumento dell’affermazione della propria personalità, un mezzo per fare apprezzare il proprio talento.
Il lavoro per il lavoro, invece, contribuisce solo ad accentuare un processo di disgregazione e a ridurre gli stessi internati, ancora una volta, a informe massa operativa. 
“Il riconoscimento del malato come soggetto di autodeterminazione è stata la più importante delle rivendicazioni portate avanti dal movimento che in qualche modo faceva riferimento a Franco Basaglia” e che nel 1975, tre anni prima dell’approvazione della legge 180, porterà anche a Volterra alla trasformazione dell’ospedale in comunità terapeutica. 
Enrico Stampacchia 

Fonte: http://www.pisainformaflash.it/notizie/dettaglio.html?nId=10621

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