Addestrare al lavoro ripetitivo, ammansire, ma spesso anche assopire
ogni istinto vitale rendendo incapaci di opporre resistenza ai voleri
altrui, “di esprimere i propri malesseri attraverso parole, suoni o
urla”. L’obiettivo della “progettazione di un uomo nuovo” propria dei
fondatori del moderno paradigma psichiatrico e dell’istituzione
manicomiale “veniva in parte raggiunto”. Un uomo nuovo, un uomo “istituzionalizzato” che era “però spesso ridotto ad un simulacro di se
stesso”. Docile, ma di una “docilità che non è neppure in grado di
esprimere valori positivi”, di una “docilità che equivale al non
essere”.
Il libro Le officine della follia – Il frenocomio di
Volterra (1888-1978) di Vinzia Fiorino pubblicato da Edizioni Ets sarà
presentato lunedì 4 giugno alle ore 17.30 presso la sala consiliare
dell’Amministrazione provinciale in piazza Vittorio Emanuele da Silvia
Pagnin, assessore alla Cultura della Provincia di Pisa, Massimiliano
Casalini, consigliere provinciale, Roberto Cappuccio, psichiatra,
psicoterapeuta e con la partecipazione della stessa autrice.
Il
volume non si limita a denunciare le finalità di una logica manicomiale
più interessata alla custodia, e a mantenere alto il numero dei degenti,
che alla cura e al reinserimento. Non è la fotografia di una situazione
statica. Ripercorre i novant’anni di storia del manicomio di Volterra e
ricostruisce in modo dettagliato le evoluzioni (e anche talora le
involuzioni) e le caratteristiche originali che l’hanno contraddistinto,
dalla sua nascita come cronicario, alle esperienze d’avanguardia negli
ultimi anni precedenti alla dismissione. Frutto di una ricerca accurata,
proposta dall’autrice alla Provincia di Pisa e pubblicato con il
contributo della stessa, il libro descrive molto bene l’esperienza della
struttura manicomiale di Volterra in rapporto anche ai modelli
culturali che l’hanno legittimata, ma anche le storie, i singoli casi
umani di chi vi ha abitato.
L’ergoterapia, la terapia del lavoro ha contraddistinto la storia del manicomio di Volterra.
L’ergoterapia, la terapia del lavoro ha contraddistinto la storia del manicomio di Volterra.
Introdotta
da Luigi Scabia, direttore del frenocomio per trentaquattro anni a
partire dal 1900, la terapia del lavoro prevedeva che all’interno del
maniconio-villaggio open door, “una sorta di piccola città indipendente
fondata sul contributo lavorativo di tutti” dove poter girare
liberamente “nei viali così come nelle strade della cittadina
volterrana”, si coltivasse, si fabbricasse, si producesse. Il lavoro è
parte del progetto terapeutico e le esperienze lavorative si
estenderanno anche al di fuori della struttura (basti pensare agli scavi
che negli anni Cinquanta “porteranno alla luce l’antico teatro romano
di Volterra”).
Il termine “officine”, significativamente inserito nel titolo dall’autrice, ha, però, anche un altro significato metaforico. L’obiettivo per incrementare la popolazione, che nel 1940 raggiungerà il suo massimo con 4547 presenze, era quello “di accaparrarsi fette sempre più importanti di un incredibile mercato, quello dei soggetti in esubero dei vari manicomi italiani”.
Il termine “officine”, significativamente inserito nel titolo dall’autrice, ha, però, anche un altro significato metaforico. L’obiettivo per incrementare la popolazione, che nel 1940 raggiungerà il suo massimo con 4547 presenze, era quello “di accaparrarsi fette sempre più importanti di un incredibile mercato, quello dei soggetti in esubero dei vari manicomi italiani”.
Una
politica fatta di convenzioni con il maggior numero di Province italiane
determinerà l’afflusso di pazienti da aree lontane. A prevalere saranno
le ragioni istituzionali prima ancora di quelle determinate dal
dibattito scientifico dell’epoca. Se in precedenza l’esigenza dei legami
affettivi e delle relazioni tra le famiglie e le istituzioni
manicomiali avevano primeggiato, “per i soggetti che giunsero a Volterra
in seguito a convenzioni” le mediazioni con le famiglie sarebbero state
molto esigue o del tutto inesistenti.
Tuttavia dopo la lunga direzione Scabia, negli anni Trenta le esperienze terapeutiche successive si allineeranno con quelle in uso sul resto del territorio nazionale durante il periodo fascista: malarioterapia, insulinoterapia, elettroshock, lobotomia. Nel secondo dopoguerra l’ergoterapia continuerà ad essere praticata, “ma subirà un notevole declassamento: da pratica terapeutica principale” sarà indicata “solo nella fase precedente alle dimissioni, quindi come una sorta di terapia-cuscinetto che prelude il reinserimento del paziente nella vita civile”. Oltre a quelle scioccanti, già in auge, le nuove vere terapie saranno quelle farmacologiche.
Tuttavia dopo la lunga direzione Scabia, negli anni Trenta le esperienze terapeutiche successive si allineeranno con quelle in uso sul resto del territorio nazionale durante il periodo fascista: malarioterapia, insulinoterapia, elettroshock, lobotomia. Nel secondo dopoguerra l’ergoterapia continuerà ad essere praticata, “ma subirà un notevole declassamento: da pratica terapeutica principale” sarà indicata “solo nella fase precedente alle dimissioni, quindi come una sorta di terapia-cuscinetto che prelude il reinserimento del paziente nella vita civile”. Oltre a quelle scioccanti, già in auge, le nuove vere terapie saranno quelle farmacologiche.
Le evoluzioni più significative si affermeranno a
partire dagli anni Sessanta quando inizierà ad emergere il tema del
reinserimento dell’ex degente, ma sarà solo nel decennio successivo che
muterà completamente la concezione stessa del malato: “i quadri
diagnostici cominciavano a restare sullo sfondo , mentre le indagini
psicologiche, le relazioni familiari, le condizioni materiali
acquistavano un inedito rilievo”. Considerare i ricoverati non più
oggetti di controllo, ma soggetti di relazioni sociali e di bisogni “ha
significato sovvertire lo spazio manicomiale”.
La stessa ergoterapia iniziò ad essere respinta perché non era concepita come strumento dell’affermazione della propria personalità, un mezzo per fare apprezzare il proprio talento.
La stessa ergoterapia iniziò ad essere respinta perché non era concepita come strumento dell’affermazione della propria personalità, un mezzo per fare apprezzare il proprio talento.
Il lavoro per il lavoro, invece,
contribuisce solo ad accentuare un processo di disgregazione e a ridurre
gli stessi internati, ancora una volta, a informe massa operativa.
“Il riconoscimento del malato come soggetto di autodeterminazione è stata la più importante delle rivendicazioni portate avanti dal movimento che in qualche modo faceva riferimento a Franco Basaglia” e che nel 1975, tre anni prima dell’approvazione della legge 180, porterà anche a Volterra alla trasformazione dell’ospedale in comunità terapeutica.
Fonte: http://www.pisainformaflash.it/notizie/dettaglio.html?nId=10621
“Il riconoscimento del malato come soggetto di autodeterminazione è stata la più importante delle rivendicazioni portate avanti dal movimento che in qualche modo faceva riferimento a Franco Basaglia” e che nel 1975, tre anni prima dell’approvazione della legge 180, porterà anche a Volterra alla trasformazione dell’ospedale in comunità terapeutica.
Enrico Stampacchia
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