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domenica 12 febbraio 2012

“Le studentesse dell'Università di Pisa (1875 -1940)”

Sarebbe impossibile enumerare tutti i generi della saggistica. Ogni libro ne contiene almeno uno. Non è, però, così comune trovare saggi che al loro interno riescono ad averne diversi e tutti, nella stessa misura, rilevanti. E' il caso del nuovo volume, pubblicato da Edizioni Ets, Le studentesse dell'Università di Pisa (1875 -1940) di Annamaria Galoppini capace di essere un libro di storia e microstorie locali, un saggio sul tema dei diritti, della emancipazione e della parità, femminile ma in generale dei soggetti deboli, e una pubblicazione sulla storia della scolarizzazione e dell'università pisana supportato da statistiche, grafici e tabelle.
Presentato lunedì 6 febbraio presso la biblioteca universitaria di Pisa, il libro è il risultato di indagini archivistiche e documentarie che hanno permesso di elaborare elenchi di iscritte, di laureate ediplomate e più in generale di ricostruire i dati di tutte le iscrizioni all'Ateneo pisano, dalle 470 del 1877 alle 2555 del 1941."Studiando i problemi della condizione femminile – scrive Galoppini – era naturale incontrare quello dell'accesso delle donne all'istruzione, in particolare all'istruzione superiore nel quale le esponenti del movimento di emancipazione avevano visto il mezzo (insieme con il lavoro extradomestico) per liberare le donne dalla loro plurisecolare inferiorità civile e politica". Delle 224 laureate in Italia tra il 1875 e il 1900, a Pisa ne risultano solo quattordici di cui dieci in Lettere, una in Filosofia (con la doppia laurea), due in Matematica, due in Medicina, quasi tutte successive al 1891.
A laurearsi prima, nel 1877, in realtà, ci fu solo una studentessa di Medicina, Ernestina Paper che, tra l’altro, a differenza dei laureati negli anni Novanta, come tutti gli aspiranti medici dell’epoca, dopo aver frequentato i primi quattro anni di facoltà a Pisa, concluse l’ultimo biennio nella sede distaccata di Firenze dove, al termine, potè conseguire il titolo di studio accademico. Se in Italia, Paese che nel 1678 vide la prima laureata al mondo (destinata a rimanere nel corso dei due secoli successivi uno dei casi eccezionali), non ci sono mai stati espliciti ostacoli giuridici all’accesso delle donne all’università, fino al 1875 il genere femminile non era neppure menzionato (l’unico riferimento, nella legge Casati, era quello relativo all’istruzione delle bambine per l’accesso alle scuole elementari, in classe separate). Il punto di svolta fu il regolamento proposto dal ministro della pubblica istruzione Ruggero Bonghi che, per primo, affermò esplicitamente la possibilità per le donne di essere “iscritte nel registro degli studenti e degli uditori“ qualora “presentino i documenti richiesti“.

Bisognerà però aspettare molti anni per veder approvata una normativa che definisce la capacità giuridica della donna sottraendola dall’autorizzazione maritale e da arbitrari atti amministrativi che spesso influivano anche sul piano dell‘accessibilità femminile all’istruzione superiore.  A stabilirlo sarà la legge 1176 del 1919 che ammette le donne “ad esercitare tutte le professioni e a coprire tutti gli impieghi pubblici“ ad eccezioni di quelli esplicitamente previsti dalle leggi. Come confermato anche dal regolamento attuativo, le donne rimarranno escluse dalla magistratura (fino al 1963), dal servizio militare e dalle carriere direttive dello Stato. La legge ebbe ripercussioni sull’istruzione universitaria perché per la prima volta aprì l’accesso femminile a carriere professionale, fino ad allora totalmente precluse, come l’avvocatura e ilnotariato. Anche Pisa ebbe, così, le sue prime laureate in Giurisprudenza che fino ad allora non consentiva quegli sbocchi professionale per la quale veniva prescelta dagli studenti di sesso maschile. La prima fu nel 1920 Paola Pontecorvo e nei successivi vent’anni ve ne furono altre trentatré. Ben diversa la situazione nella facoltà pisana di Lettere. Già nel 1915/16 le donne cominciarono a superare leggermente gli uomini (per poi scendere nei primi anni Trenta fino al 36% e risalire al 58% nel 1940/41). Le percentuali molto ridotte di Medicina saranno destinate ad aumentare leggermente nel corso degli anni Trenta grazie all’afflusso delle ragazze ebree provenienti “dall’Europa centro-orientale che fuggivano dalle discriminazioni antisemite dei loro Paesi d’origine“. In generale a Pisa le iscrizioni femminili “continuarono a crescere oltre la media nazionale fino all’inizio della seconda guerra mondiale, dove termina la periodizzazione di questa ricerca“ e già all’inizio della Grande guerra, con il 10,39%, “si erano assestate su una percentuale quasi doppia della media nazionale“.
Una sentenza del Consiglio di Stato, successiva alla legge 1176, non esiterà a respingere il ricorso di una candidata che si era vista sbarrare la strada ad un concorso in un ginnasio maschile per una ennesima clausola discriminatoria nei confronti dell’accesso femminile. Alle singole amministrazioni statali verrà riconosciuto il potere di stabilire casi di esclusione delle donne anche non previste dalla legge quando “necessario o utile o anche conveniente“. L’autrice ci ricorda che “si era nell’Italia del 1921, di cui facevano scempio le squadre dei picchiatori fascisti“ e il libro sa, poi, entrare bene nel merito della politica contro l’emancipazione femminile del regime fascista. Tener viva la memoria storica sulla tragicità del ventennio successivo è obiettivo molto apprezzabile. Forse, nonostante le conquiste democratiche dell’Italia repubblicana, ciò potrebbe essere utile anche per una riflessione sulla storia successiva, almeno quella complessiva degli ultimi novant’anni, e sul fatto che senza un rigoroso e costante riferimento alla legge il passo tra discrezionalità burocratica e arbitrio discriminatorio sia breve, assolutamente troppo breve.

Enrico Stampacchia

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